Accademia Kremmerziana Napoletana

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LA CONQUISTA DELL’IO COSCIENTE
(L’Importanza del pensiero cosciente, di L. Le Leu)
(Riduzione di Eiael)

I materialisti dicono volentieri che tutto ciò che esiste è composto di materia e di forze ciecamente associate per un tempo più o meno lungo, alla fine del quale i diversi aggregati viventi si dissolvono e rendono alla massa i loro elementi, i quali vi si trasformano incessantemente per altre combinazioni di materia e forze, messe assieme di nuovo a caso, da ciò che si chiama Natura.

Questo ragionamento ha il merito, assai povero, di essere semplicista e di fare tabula rasa di tutti i problemi non solo psicologici ma fisiologici ed anche semplicemente organici ed inorganici; ma è chiaro che non soddisfa alcuno, neppure loro che lo fanno. Senza uscire dal dominio dell’esperienza fisica, è – del resto – assai facile il mostrare quanto esso sia falso.

In effetti, in questa Natura che essi pretendono cieca, risplende la luce, e gli esseri hanno degli occhi per gioirne e per servirsene. Questa Natura manifesta ovunque l’intelligenza, che è anche luce e gli esseri hanno l’affinità, l’istinto, la ragione per impiegare l’intelligenza come ci si serve della luce con gli occhi.

Simili e così preziosi doni hanno un obbiettivo evidente che è quello di permettere agli esseri di riconoscersi nel loro proprio ambiente e di realizzare le loro rispettive capacità nel senso di una evoluzione generale.

E’ così difficile accorgersi che l’uomo possiede delle facoltà che sono sproporzionate alla parte effimera e senza un obbiettivo superiore che il materialismo attribuisce alla sintesi visibile e fisica, cioè al corpo nel quale l’uomo è attualmente manifesto come essere vivente? Noi abbiamo delle aspirazioni e dei bisogni che sorpassano di molto (e talora infinitamente, per lo meno nella élite dell’umanità) i poteri ordinari della nostra natura fisica. Non abbiamo l’esempio giornaliero di persone in apparenza colme di tutti i beni della vita e, per conseguenza in grado di essere anche felici quanto lo si possa essere sulla terra, le quali tuttavia sono lungi dall’essere soddisfatte della vita e ne soffrono talora ancor più di poveri che mancano delle comodità più ordinarie e delle soddisfazioni più legittime? Ma, a dire il vero, l’uomo perfettamente felice è forse un’utopia, quale che sia la saggezza che gli si supponga. Quand’anche, del resto, un uomo fosse arrivato ad identificarsi con l’immutabile divino potrebbe guardare senza compassione la sofferenza degli esseri e non soffrirebbe lui stesso di essa fino a che la loro sorte non sia migliorata e che l’umanità sia entrata in una fase più chiara della sua vita dolorosa, con una visione migliore della sua vera natura profonda e delle sue reali possibilità?

D’altronde, ciò che dicono i materialisti non è affatto privo di senso; essi sono una delle innumerevoli voci del dolore umano oppresso sotto il fardello della sua ignoranza e si rifiutano di constatare altro all’infuori di quello che cade immediatamente sotto i loro sensi limitati dal velo della materia. Il fenomeno invisibile sfugge loro ed essi non vogliono tenere conto che del fenomeno visibile; restano chiusi nel limite della loro capacità mentale.

Ma vi è un’osservazione assai grave: certi investigatori del mondo invisibile hanno affermato, dal canto loro, che l’essere umano primario, frusto e non evoluto, è suscettibile di non poter sopravvivere sufficientemente alla disgregazione del suo organismo temporaneo, quale la morte la produce.

E’ una questione che merita qualche attenzione. I materialisti dicono: «quando si è morti, tutto è morto». Che ne sanno? Nulla. E’ un’affermazione gratuita da parte loro e niente più.

D’altronde, degli spiritualisti affermano in modo semplicista che l’uomo è un essere necessariamente immortale, poiché la morte non colpisce che il corpo, mentre lo spirito sopravvive. Vengono allora i differenti sistemi che hanno la pretesa di descrivere i modi di sopravvivenza dell’essere, e all’appoggio dei quali sinora non si è potuto apportare la prova realmente obbiettiva e scientifica, cioè soddisfacente.

La verità non è nelle affermazioni, né nelle negazioni estreme; generalmente essa si mantiene nel giusto mezzo per equilibrarle, perché la verità è nella vita, e la vita è uno stato di equilibrio più o meno variabile di forze opposte.

Il torto dei materialisti è di non voler ammettere altra realtà se non la materia che cade sotto i loro sensi, quantunque essi siano obbligati a dover riconoscere, nel contempo, altra cosa che non cade sotto detti sensi e che chiamano la forza, l’energia, cioè qualche cosa che muove la materia e che è il mezzo invisibile dei fenomeni visibili, una forza che – essi finiranno per ammetterlo – ha delle finalità.

Sarebbe dunque assai facile il mostrar loro che la nozione che essi hanno della forza, può essere considerevolmente ampliata; che vi sono delle gerarchie di forze; che ha lato delle forze cieche vi sono delle forze intelligenti e che sono queste le quali hanno precisamente il compito di dominare le forze cieche e di formare delle sintesi più perfette e più durevoli, in mezzo alle incessanti metamorfosi delle sintesi imperfette e temporanee e delle loro effimere manifestazioni.

Il Cosmos è un vasto sistema di energie agenti per le quali la vita è manifestata più o meno felicemente secondo la qualità delle forze in gioco, o secondo il valore dei centri nei quali queste forze agiscono.

Più sono materiali gli elementi nei quali agiscono queste forze, più sono complessi, e meno le sintesi momentaneamente formate sono durevoli, benché tanto più ricche in possibilità.

E’ perciò che l’uomo, appartenendo per il suo corpo ad uno stato assai materiale e assai complesso, non ha che una esistenza fisica breve e d’altronde soggetta ad ogni specie di accidenti che l’abbreviano ancora, in ogni modo e in tutte le proporzioni, ed è anche perciò che egli potrebbe essere minacciato di non poter sopravvivere alla decomposizione del suo organismo temporaneo se non dovesse profittare delle possibilità che sono in lui per preparare a se stesso un minimum almeno di sopravvivenza possibile, cioè una coscienza capace di funzionare in modo spirituale.

E’ bene inteso, in effetti, che l’uomo, il quale è l’essere più complesso del Cosmos (al punto che si è potuto dire di lui che è una sintesi completa e che vi è in esso tutto ciò che si trova nell’Universo, compreso il Divino stesso) ha il potere di resistere più o meno vittoriosamente alle forze di decomposizione della forma materiale e di sopravvivervi in uno stato più sottile della materia; ma ciò non è che un potere subordinato al suo proprio esercizio. Perché la sopravvivenza divenga un fatto duraturo, occorrono certe condizioni che sono, d’altronde, alla portata dell’uomo ordinario.

La più importante di tali condizioni è che, nel corso della durata della sua vita relativamente corta in un organismo soggetto alla dissoluzione, la coscienza dell’uomo si sia abituata a funzionare in un modo di essere meno fragile – è un minimum – e, se possibile, in modo di essere permanente. Passiamo a comprendere la ragione.

Si dice spesso e volentieri: «nulla si distrugge». E’ vero; ma tutto ciò che non è individualizzato si trasforma per la disgregazione dei composti e per nuova aggregazione dei loro elementi sotto altre formule.

Ora, che cosa s’intende generalmente quando si dice: «credo di essere immortale?».

Interrogate coloro che sperano nell’immortalità; essi vi risponderanno: noi desideriamo ritrovarci al di là della morte e in un altro stato di essere identico a noi stessi e ritrovare quelli che amiamo, identici anche a se stessi.

Ebbene, ciò è un problema; è il problema più delicato forse, che sia al fondo della questione dell’immortalità dell’uomo; è il grave problema dell’identità della coscienza e della coscienza dell’identità negli esseri soggetti a delle metamorfosi come l’uomo.

Che vi è di durevole in noi e per noi? Nulla, dapprima, di ciò che è esteriore a noi stessi. Questo corpo col quale ci identifichiamo sfortunatamente assai troppo esclusivamente è in balia di tutti gli accidenti e non può, finalmente, sfuggire all’accidente fatale della morte che ce ne separa e che, per conseguenza, ci separa nel contempo dall’ordine intero dei fenomeni fisici, coi quali noi non siamo in rapporto se non per il fatto che abbiamo come intermediario fra essi e noi questo stesso corpo che mette a nostro servizio degli organi, che sono gli strumenti con l’aiuto dei quali noi apprezziamo i fatti del mondo fenomenico che ci circonda.

Supponete per un istante un essere che non ha mai preso coscienza di un altro ordine di realtà se non quello dei fenomeni esclusivamente fisici; il buon senso indica da sé che la coscienza di questo essere, quando si dissolve l’unica sintesi nella quale essa era capace di funzionare, avrà un bell’essere immortale e anche, all’occorrenza, entrare in attività in un altro stato di essere; l’impossibilità nella quale si troverebbe di rilegare razionalmente i fenomeni del suo nuovo stato con quelli del suo stato precedente, equivarrebbe alla perdita della sua identità personale, ed essa non avrebbe neanche nozione della sua immortalità, cioè della continuità del suo stesso IO, cosciente dell’unità della catena dei suoi stati di essere successivi.

Ora, per l’essere umano, l’immortalità non è interessante se non quando egli continui a sentirsi identico a se stesso e se è capace di mettersi a cavallo, se così si può dire, su almeno due stati di coscienza, per modo da poter mantenere fra di essi dei rapporti di continuità, con l’aiuto dei quali egli percepisce nettamente che la sua vita personale intima è ininterrotta e si persegue senza lacuna.

Per giungere a questo risultato, bisogna appoggiarsi su un fondo solido, come quando si scavano le fondamenta di un edificio che deve elevarsi su di un suolo formato di terre rapportate ed inconsistenti si deve scendere fino a che non si trova la roccia, sotto pena di vedere crollare l’edificio un bel giorno, anche prima che esso sia compiuto. Così quegli che vuol assicurarsi la sua immortalità personale e la permanenza della sua identità cosciente, deve abituarsi a far funzionare la sua coscienza su un piano permanente e superiore al piano dei miraggi e delle illusioni di ogni sorta, le quali nel piano intermediario ai due piani fisico e psichico, sono più potenti ancora che da questo lato, per sviare e per perdere coloro che vi si lasciano prendere e non hanno coscienza delle realtà che sono al di là.

Noi dobbiamo dunque cominciare con l’apprendere a meditare, e si apprende a meditare con l’apprendere a pensare. E’ il primo passo verso la vita cosciente dello spirito.

Studiamoci un poco e ci accorgeremo subito che, per la maggior parte del tempo, siamo degli esseri senza unità, degli esseri dispersi, avidi di manifestarci all’esteriore e viventi quasi unicamente delle emozioni diverse che domandiamo a ciò che ci circonda; siamo incapaci di fare a meno delle cose esteriori, ignoriamo anche, la maggior parte del tempo, l’esistenza della vita interiore.

Malgrado tutte le dure lezioni che riceviamo incessantemente dagli esseri e dalle cose che ci circondano non pensiamo che la vita interiore è la sola realtà e che un tempo verrà, presto o tardi, in cui questa vita interiore sarà il nostro unico rifugio, quando intorno a noi tutto si dissolverà e svanirà come svaniscono dei vani miraggi e quando saremo nell’alternativa di addormentarci noi stessi nelle cose, o di sfuggire alle forze di dissoluzione attraverso l’unico mezzo che è la coscienza intima di un’altra vita puramente interiore, indipendente dalle cose periture e dagli agenti della loro distruzione.

Esercitiamoci dunque a far senza di ciò che non è profondamente noi, ad estrarcene a mezzo della volontà, a ripararcene come dietro un muro di isolamento o per lo meno di indifferenza, a raccoglierci, in una parola: a concentrarci in noi stessi e a pensare.

Non facile, è difficile, ma bisogna farlo. Scegliamo poi un soggetto di meditazione e sforziamoci di scartarne tutte le illusioni e tutte le ombre al fine di spiegarne tutta la realtà e tutta la luce, per modo che la nostra coscienza non faccia che uno con essa e non perdiamo mai di vista questa verità importante: che la causa dei nostri errori non risiede nelle nostre facoltà in se stesse, ma nel limite delle nostre facoltà e nell’uso che ne facciamo per il modo difettoso di ragionare sulle nostre impressioni e sui nostri sentimenti.

La filosofia ci insegna che le nostre facoltà sono infallibili in se stesse nella misura della loro potenza e che i nostri stessi sentimenti lo sono, ma solo come semplici testimoni delle cose che cadono sotto la loro esperienza diretta.

L’intelligenza pura, che è la facoltà di discernere il vero, è infallibile perché, se non lo fosse, noi saremmo il trastullo incosciente di tutte le illusioni e non potremmo mai acquisire alcuna certezza né anche aver l’idea di verità e di morale, né alcuna delle idee fondamentali della filosofia e della vita.

Ma l’intelligenza pura non è essa stessa infallibile se non quando funziona nel piano della ragione pura, al riparo delle influenze di tutte le illusioni e come strumento della coscienza pura. Ora noi siamo ben lontani dal potere, per lo più, di servirci della nostra intelligenza in questo modo infallibile, perché siamo ben lungi dall’essere unificati con la nostra coscienza pura che è il vero IO del nostro essere, il riflesso dell’IO divino che abita nelle profondità del nostro centro psichico, il quale è il suo rifugio e il suo santuario.

Lo scopo del pensatore che medita è quello di entrare in rapporto con questa profonda luce, al lume della quale appare la ragione intima delle cose senza che occorra fare altro all’infuori di guardarla con l’occhio dello spirito.

Perciò colui che medita si applica a scartare dalla sua meditazione ogni causa di errore. Gli errori vengono tutti dal pregiudizio, cioè da una opinione preconcetta o che si forma al di fuori di ogni garanzia sicura della verità. Il pregiudizio è l’errore più banale, è l’errore delle folle, delle persone senza sufficiente cultura, dei sentimentali, degl’immaginosi e degl’innumerevoli esseri che adottano senza alcun esame ciò che meglio soddisfa le inclinazioni della loro superficiale natura; è per eccellenza l’errore del psittacismo che s’immagina che ripetendo, e generalmente assai male, ciò che altri hanno detto, si sa qualche cosa; mentre lo studio e l’esperienza personale, guidati dalla conoscenza di principi certi ed universali sono soltanto la sorgente del reale sapere.

Quante vittime fa questo banale errore e quanto esse sono da compiangere; molte persone, incapaci di verificare in se stesse le verità essenziali che sono la vita dell’intelligenza e la roccaforte dell’IO cosciente, si formano, a caso, sulle loro affinità sentimentali ed immaginative, una dimora d’illusione, la cui decorazione appare loro come il nec plus ultra della realtà permanente; esse camminano come in un sogno in mezzo a visioni fittizie, fino al giorno in cui un raggio di bianca luce, proiettata su questa decorazione illusoria, lo fa svanire come la nebbia del mattino man mano che il sole sale verso lo zenith.

Gli uomini delusi se avessero preso coscienza di se stessi, se avessero appreso da se stessi e attraverso una profonda esperienza la differenza esistente fra le verità interiori della ragione pura e le illusioni esteriori della immaginazione, saprebbero che tutte le forme sono illusorie e che, nella irrealtà universale delle cose, che svaniscono come delle effimere brume, non vi è che una cosa sola reale, persistente, unica, la quale è la maestra delle formazioni dell’immaginazione e del pensiero: il pensiero stesso, identificato con la coscienza profonda, con l’IO interiore e divino che solo è capace di sopravvivere a tutto ciò che muore, e di formarsi e rinnovarsi un vestito vivente con gli elementi mobili della sostanza: «noi dobbiamo dunque attaccarci con tanta maggior diligenza alle verità importanti che ci sono state trasmesse, se non vogliamo essere come l’acqua che scorre e si perde», si legge nella Scrittura; pesiamo questo avvertimento; è importante.

Quegli che, attraverso adatti mezzi, non entra in relazione di identità cosciente con ciò che vi è in lui di immutabile e di divino, cioè con la coscienza profonda e con l’IO permanente, il quale risiede nel centro psichico, non è che «acqua che scorre e si perde»; egli non è che una illusione di più in mezzo a cose illusorie che compongono il mondo incessantemente mutevole delle forme inconsistenti della vita.

E’ auspicabile che queste verità siano conosciute da tanti esseri che ignorano tutto della vita interiore, la sola reale, e da tanti numerosi altri che confondono la vera vita dell’anima con un fenomenismo astrale inferiore ed assai dannoso, non fosse altro che per la spaventevole sproporzione d’illusione che esso comporta, malgrado tutte le teorie sentimentali edificate su questa sabbia mobile e forse anche a causa di queste teorie.

Il pensiero, in effetti, ha il potere di generare delle forme più o meno viventi che traggono dalla sua sostanza tutta la loro vitalità.

Il piano immediatamente vicino al piano fisico, questo piano detto «astrale» col quale, oggi, numerosissime persone sensitive prendono assai facilmente contatto e di cui una scienza avanzata ma poco munita di protezione cerca di scrutare i primi enigmi; questo piano «astrale» è stato conosciuto in ogni tempo da iniziati come il piano dell’illusione per eccellenza e una grande parte dei danni che esso cela viene dall’uso che dei mezzi stessi di questo piano possono fare certe potenze non umane e riconosciute ostili all’uomo per ingannarlo e compiere i loro disegni a detrimento dei suoi diritti e della sua missione, affidatagli dallo stesso Eterno. E’ questa una chiave importante che può spiegare molti enigmi; gli alti sperimentatori mistici non l’hanno mai ignorato.

Tutti coloro che hanno compreso la necessità, vitale per essi, di entrare risolutamente nella via che conduce alla piena coscienza di se stessi e all’unità dell’essere cosciente e per conseguenza alla sopravvivenza duratura e all’immortalità, hanno fatto tutti i loro sforzi per liberarsi dalla legge di queste illusioni, illusioni dei sensi del corpo e illusioni dei sensi dell’anima e hanno tutti cominciato col dominio del pensiero, primo passo verso il dominio di se stessi e verso la conquista della coscienza.

Abituiamoci, dunque, a concentrare le nostre facoltà di percezione delle cose in modo preciso su un punto ben determinato della realtà, per modo che tutte le nostre attività coscienti siano impiegate ad approfondire questo punto unico. Quando vi avremo visto chiaro abbordiamo un altro punto e di punto in punto allarghiamo il campo delle nostre investigazioni in modo da estendere nel contempo i domini della nostra coscienza, fino a che i nostri sensi interiori siano sufficientemente affinati per permetterci di osservare con calma tutti gli ordini di fenomeni suscettibili di presentarsi alla nostra osservazione.

Saremo allora ricompensati vedendo schiudersi ai nostri sguardi interiori dei mondi di luce pura insospettati dagli ordinari occhi umani e conquisteremo gradualmente la facoltà di scoprire, nelle profondità stesse delle cose, la ragione celata, la causa sconosciuta e come la chiave degli enigmi che tormentano l’immaginazione degli uomini, unicamente abituati a formare i loro giudizi secondo le apparenze, il cui menomo difetto è quello di essere generalmente ben differenti dalla realtà.

Con questo mezzo, laborioso a colpo sicuro ed anche ingrato al principio, ma semplice e fecondo, potremo perfezionare successivamente tutte le facoltà del nostro essere, dai nostri sensi fisici fino ai nostri sensi spirituali più sottili; saremo meravigliati di vedere l’infinito stesso schiudersi dinanzi a noi e di accorgerci che noi prendiamo coscientemente possesso dell’infinito; vedremo che questo infinito è tanto in noi stessi quanto noi stessi siamo in esso; nulla ci sarà più oscuro, perché saremo noi stessi identificati con la luce che penetra tutte le tenebre e che rischiara tutte le cose, e questa luce sarà in noi.

Avremo infine coscienza di essere in unità con ciò che è sempre stato, è e sarà sempre; ci sentiremo immutabili in mezzo a tutte le cose che mutano e poco ci importerà che esse mutano, poiché sapremo che il mutamento è il loro destino; le guarderemo come si guarda tutto ciò che passa, sapendo che ciò passa e che tutto deve passare. Ma non ci isoleremo nella torre d’avorio della nostra trascendente conquista; ci ricorderemo del calvario che abbiamo asceso per raggiungerne la sommità e sapremo ridiscendere allora nella pianura, in mezzo a ombre che si muovono alla ricerca della felicità e della pace; ci chineremo con compassione verso gli esseri di buona volontà per aiutare la canna spezzata a raddrizzarsi, per ravvivare la miccia della luce dell’anima che fumiga ancora nella povera lampada umana esposta ai soffi dell’uragano. Così hanno fatto i veri figli degli uomini divenuti veri figli di Dio. Quanto a noi che non siamo che candidati, iniziamo col prendere possesso cosciente delle facoltà superiori che ci distinguono dagli esseri votati alla morte; apprendiamo a pensare coscientemente, perché così non ci meraviglieremo di nulla e impareremo a non illuderci su nulla e a restare immobili in mezzo a tutto ciò che muta.